Adolescenti “difficili”: quali azioni educative possibili?
“…stimolare la vita,
lasciandola però libera di svilupparsi,
ecco il primo dovere dell’educatore.”
Maria Montessori
Accendendo la televisione o leggendo pagine di giornale mi sono spesso imbattuto in dissertazioni sui giovani d’oggi.
Devianza, baby gang, bullismo, dipendenza dal mondo virtuale sono elementi che sempre più vengono utilizzati nel descrivere gli adolescenti; a fronte di tali fenomeni e, talvolta, innegabili difficoltà, quali soluzioni vengono proposte?
Mi ha colpito come la politica abbia fatto proprio il tema (non c’è niente di male, ovviamente, nel fatto che i governanti si occupino dei fenomeni sociali, anzi), proponendo alcune soluzioni. Il tema è caldo, il dibattito altrettanto acceso, tra chi spiega la situazione in termini di mancanza di spazi adeguati, difficoltà dell’istruzione di rimanere al passo coi tempi, iniquità e mancanza di opportunità date dalla società e chi propone di affrontare la questione “di petto”, impartendo un’educazione ferrea e in grado di insegnare il rispetto che i genitori non sanno insegnare, per esempio attraverso l’istituzione del servizio militare obbligatorio.
In questo articolo vorrei soffermarmi su questa seconda posizione.
L’educazione come forma di correzione – “fare qualcosa su qualcuno”
Tralasciando il fatto che i racconti di chi il servizio militare l’ha svolto non ne restituiscono un’immagine tra le più lusinghiere, credo sia importante focalizzarci per un attimo sul presupposto che sorregge l’idea di una correzione del comportamento maleducato mediante un ambiente in cui vengono applicate regole rigide e ferree (sia esso una caserma o una diversa forma di ristabilire l’ordine). Propongo di chiederci quale concezione di persona vi sia dietro tale mezzo correttivo.
La persona, all’interno di una caserma, deve obbedire, ovvero subordinare la propria volontà a quella di chi ricopre un ruolo gerarchico superiore. Non è di fondamentale importanza che chi esegue condivida il senso di ciò che si fa, l’importante è che le cose vengano fatte proprio così come richieste.
Badate bene, non sto dicendo che allenare un soldato ad eseguire pedissequamente gli ordini non sia cosa importante. Le strategie militari, la tenuta di un battaglione (aspetti sui quali si gioca, ahimè, la vita e la morte delle persone) dipendono strettamente dalla coesione che si crea tra i militari. Immaginiamoci per un attimo che, di fronte all’assalto del nemico, qualche soldato abbia un ripensamento, un dubbio di natura etica e si chieda se sparare ed uccidere è davvero quello che desidera. Ricordate la canzone di Fabrizio De André, “La guerra di Piero”?
Piero, nell’incontrare un soldato nemico, si chiede:
…
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
…
Non serve aggiungere molto, avrete intuito dove i dubbi di Piero lo conducono.
In una caserma gli aspetti personali vengono “diluiti”, quasi a scomparire, infatti si indossa il medesimo abbigliamento, il taglio di capelli appare piuttosto omologato, si mangia quello che “passa il convento”.
Si allevano schiere gerarchiche di gregari, dove c’è sempre qualcuno a cui rispondere e rispetto al quale subordinare la propria volontà e capacità decisionale.
E’ questo il modello di educazione a cui aspiriamo? Sono (solo) queste le risorse di cui una società ha bisogno? Persone che rispondono agli ordini, scarsamente capaci di operare scelte significative per sé?
Forse avremmo una società ordinata; sono meno sicuro che avremo una società creativa, capace di innovarsi e affrontare le difficoltà che una realtà dinamica come quella moderna ci impone.
L’educazione come forma di comprensione – “fare qualcosa con qualcuno”
Che fare quindi? Quali alternative abbiamo per affrontare le problematiche giovanili?
Inizierei con il tentare di descrivere in modo alternativo i fenomeni cosiddetti devianti.
La maleducazione è una possibile spiegazione, ma credo sia un po’ troppo vaga e imprecisa per comprendere la situazione. Cioè, la maleducazione che “roba” è? Maleducati ci si nasce? Ci si diventa? E’ un inclinazione che alcuni hanno e altri no?
Parlare di maleducazione non ci illumina su simili questioni, nemmeno sul perché una persona si comporti in modo maleducato. Potremmo invece dire che maleducazione ci indica che qualcuno si è comportato in modo poco accettabile per una comunità, un gruppo, una cultura che osservano e intercettano quel comportamento: mi perdonerete l’indelicatezza dell’esempio ma, se faccio un rutto dopo un bel piatto di spaghetti in un pranzo domenicale, in Italia, non sarò ricompensato da sguardi benevoli, mentre se lo faccio in Marocco o in Giappone, probabilmente chi ha cucinato si sentirà gratificato, pensando che ho apprezzato le pietanze.
Quando parliamo di maleducazione o di un comportamento da correggere, stiamo parlando tanto dell’azione di qualcuno (il ruttare), tanto dello sguardo – che è appunto una prospettiva sociale e culturale – con cui noi stiamo interpretando ciò che accade (maleducazione o gratificante apprezzamento?).
Maria Montessori, nota pedagogista, considera il bambino (e l’essere umano, per estensione) parte attiva del processo educativo e di crescita individuale, riconoscendolo come attore principale e centro focale dell’educazione. “Montessori evidenzia come il compito dell’adulto sia fondamentalmente quello di creare le condizioni affinché il bambino possa esprimere le sue competenze e possa crescere e conoscere attraverso un “fare spontaneo”. L’adulto (sia esso genitore, insegnante, psicologo) deve riuscire a coltivare costantemente nei confronti dei bambini un atteggiamento di comprensione, che consiste nell’attribuire un senso alle loro intenzioni, avere fiducia nelle loro potenzialità, adattando il proprio comportamento alle specificità di ciascun bambino, anziché chiedere a lui di adeguarsi al contesto” (Fontanari W., Gios L., 2016).
Analogamente per George Kelly, psicologo che ha dato vita ad un approccio psicoterapeutico, l’uomo è uno sperimentatore che cerca di comprendere il mondo che gli si “para” davanti, interpretarlo per ricavarne utili informazioni per le proprie azioni e, in ultima analisi, adattarsi agendo efficacemente.
E’ solo attraverso una sperimentazione attiva, in prima persona, che possiamo davvero cambiare, scoprire diversi modi di stare al mondo. Ed è un accompagnamento alla crescita di tipo Montessoriano che si configura come un’alternativa possibile (non l’unica, evidentemente) alla coercizione di un’educazione militare. Credo che l’adulto, le agenzie educative, la politica, debbano assumersi la responsabilità di canalizzare, dirigere almeno in parte le energie e le sperimentazioni delle nuove generazioni; questa visione si fonda su un’autentica disponibilità a comprendere profondamente l’altro, piuttosto che a fermarsi a valutarlo. Si tratta quindi di comprendere quanto vogliamo siano stretti i “canali” mediante i quali cerchiamo di canalizzare le energie vitali degli individui, se vogliamo avere un atteggiamento di imposizione o vogliamo provare a capire che tipo di esperienza e di scelta sta facendo quel ragazzo. Per esempio, se un adolescente scrive col pennarello su un monumento, che fare? Ok, posso senz’altro dire che scrivere su un monumento pubblico è un atto di maleducazione; potrei cercare di rieducarlo, assumendo che nessuno gli abbia insegnato il rispetto della cosa pubblica. Oppure potrei provare a comprendere che gli “passa per la testa” e questo, va da sé, presuppone un dialogo, una relazione non di subordinazione, ma votata alla comprensione ( comprendere le motivazioni per cui una persona si comporta in un certo modo non significa assolutamente giustificare o condividere le motivazioni stesse): potrei scoprire, per esempio, che ci tiene a far sapere al mondo che lui è passato per di lì, che lui considera i gradini di quel monumento casa sua, che si sente invisibile come persona perché gli viene chiesto di essere solo un bravo studente, ma nessuno si preoccupa di aiutarlo a capire che posto può ricoprire nel mondo, come può sentirsi utile e vedere davanti a sé un futuro pieno di speranza, e che, dal suo punto di vista, scrivere il suo nome può essere un modo di affermare che lui, come persona, esiste!
A questo punto si aprono diverse questioni e possibilità davanti a noi: come dare speranza? come aiutarlo a scoprire il suo posto nel mondo? La politica di cosa si potrebbe occupare? Forse di riformare l’istruzione? L’orientamento? Di garantire degli sbocchi lavorativi equi?
E i genitori? Come trovare la quadra tra il favorire spontaneità, creatività, direzione alla motivazione ed aiutare a comprendere il senso del limite che la vita in relazione ci impone?
Ahimè, non credo che abbiamo una soluzione rapida e veloce a portata di mano (a meno che non ci accontentiamo di banalizzare la questione, parlando di una vagamente definita maleducazione). Potremmo però fare un esperimento e accettare, come “soluzione” provvisoria, di continuare ad essere curiosi sperimentatori a nostra volta, compiendo quello sforzo di metterci nei panni dei nostri figli/studenti/giovani cittadini, per comprenderne gli esperimenti e proporre un’esperienza alternativa che tenga realmente in considerazione l’altro.
Qualcuno di questi, magari, potrà scegliere di andare in caserma perché sinceramente animato dalla curiosità di sperimentarne le possibilità, anziché viverne solo i limiti ferreamente imposti.
Dott. Matteo Olivo
Bibliografia
Fontanari W., Gios L. (2016). Il bambino ricercatore. Un incontro tra la Psicologia dei Costrutti Personali e l’approccio educativo di Maria Montessori. Rivista Italiana di Costruttivismo, vol 4.2, pp. 6-19.
Sitografia
https://it.wikipedia.org/wiki/La_guerra_di_Piero
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